Titolo: POENA DAMNI
Autore: Dimitris Lyacos
Traduzione di: Viviana Sebastio
Editore: Il Saggiatore
Anno: 2022
Pagine: 328
a cura di Donato Di Stasi
- Incipit. Ci sono libri che dicono poco e libri che dicono troppo: i primi appartengono al genere balneare, o del dormiveglia e non conta farne menzione; i secondi inquietano lo spirito, sfidano la ragione, sollecitano l’immaginazione a destarsi dall’anestesia di massa. A questa seconda genìa appartiene la trilogia, Poena Damni, che leggiamo nella magnifica traduzione di Viviana Sebastio, capace di ricreare in italiano il denso impasto linguistico dell’originale greco, opera di un autore di straordinaria potenza espressiva, Dimitris Lyacos.
Si tratta di un libro drammaticamente vero e frugiferante in tempi di desertificazione della letteratura: un prosimetro (prose e poesia) in tre volumi che ci lascia entrare in una civiltà distopica e ci fa camminare lungo i bordi dell’abisso, dove la totalità, l’intero, il senso di insieme delle cose sono andati perduti. Davanti allo sguardo si affastellano lamiere marcite, tralicci spezzati, pezzi e pezzi di asfalto, materassi sventrati, fosse comuni, ospedali-prigione, città-cimitero, treni lanciati verso il nulla, sentimenti che non riescono più a stare al mondo: l’autore che raccoglie questi frantumi non si perde d’animo e accende i suoi poemi-fiammiferi, gettandoli nelle tenebre assolute. Con quale effetto? Lo decide il lettore, avendo tra le mani i testi-fenice che possono rinascere dalle loro ceneri, se solo se ne comprende la ricchezza. Nelle pagine di Poena Damni le ombre spingono per diventare luce, i recessi dell’inconscio premono per diventare discorso, le maschere mostruose della città distopica bramano il ritorno all’umano, le passioni scaraventate nel sottosuolo reclamano il ritorno in superficie. Dunque un prosimetro dai tratti metafisici, ambientato fra la Zona Morta e l’Esilio, incentrato sulla necessità di restituire un senso agli eventi e alle esistenze individuali e collettive.
- Primo labirinto. Linguaggio, significato e struttura della trilogia. Accecato come Omero, illuminato come Lautréamont, Dimitris Lyacos sa quale direzione prendere con la sua scrittura e non si cura dello smarrimento del lettore, di fronte a una vicenda avvolta nel mistero nella quale, di immediatamente comprensibile, appare il primo livello del testo: la fuga del protagonista da forze oscure, incandescenti, sotterranee, apocalittiche.
Quando la sequenzialità narrativa cede ai soprassalti irrazionali della scrittura e il processo descrittivo-riflessivo si interrompe bruscamente, allora Dimitris Lyacos può costringere il lettore a confrontarsi con l’irrisolto, con i nodi esistenziali e sociali, mai sciolti, di un mondo in piena catastrofe.
L’abbandono della linearità espositiva serve a liberare spazi di una visione ulteriore, più ampia, non convenzionale dei fatti e delle cose, operazione condotta anche a livello grafico con il ricorso a caratteri tipografici differenti, con la frattura e la separazione dei fonemi: “Nastri trasportatori, altri seguili, più avanti più si re-//stringe,//come una mano nel muro//Mat a pri fango soffice più scavi/più cola, sempre più soffice, sempre più caldo, una mano/spezzata” (p. 60, Z213: Exit).
Se i processi diegetici, poietici e grafici subiscono studiate interruzioni, non viene mai interrotta la continuità del discorso. Dietro l’apparente disordine ciascun capoverso mostra una logica impeccabile, un pensiero perfettamente sicuro e argomentato, a dispetto della inarginabile irragionevolezza del mondo esterno.
Se è vero che l’ordine sensato del linguaggio entra in dialettica collisione con il disordine insensato della realtà, sappiamo sempre dove l’autore intende condurci: in un dedalo funesto di ceneri e rovine, dentro una città-mondo sconfitta e trafitta, dentro luoghi nei quali l’esperienza della disperazione non ha limite, mentre la speranza si riduce a un inconsistente punto della mente.
A livello stilistico Dimitris Lyacos costruisce il suo labirinto di carta, servendosi di una quantità stupefacente di generi letterari, riuscendo a calibrarne con enorme sapienza l’articolazione e la relazione dell’uno con l’altro: il romanzo popolare, il romanzo poliziesco, il romanzo nero, il fantasy, lo splatter, il teatro classico greco, il teatro elisabettiano, l’elegia funebre, la poesia di viaggio preromantica e postromantica, l’espressionismo, il realismo (“Poi inizia a scendere di nuovo più veloce che puoi, per arrivare prima dell’alba. Domani ne sarebbero morti anche altri. E qualcuno sopra di te”, p.10, Z213: Exit; “Narratore, va e la ferma. Treno che batte come un cuore nel ponte, aspettiamo, è passato, ora le donne, a turno o quasi”, p. 18, Con la gente sul ponte; “Nel sartiame insanguinato del cervello/tentacoli interni e il sisma/spumeggia un’insaziabile larva alle foci/del cranio/e altri vermi infuriano”, VII, La prima morte).
Il linguaggio stesso diventa un intrigo, che respinge e seduce a un tempo, con le sue perfette concatenazioni plurisemantiche e con i suoi lati oscuri da chiarire, lettura dopo lettura.
In quale romanzo giallo cadrà il lettore, imbattendosi nella trilogia Poena Damni?
Si comincia con la fuga del protagonista da una città straziata, dal rinvenimento di una Bibbia nella tasca di un soldato morto e dalla decisione di tenere un diario per annotare ogni aspetto dell’orrore (primo volume, Z213: Exit).
Si prosegue con il secondo volume, nel quale il protagonista sbatte contro una radura mefitica, una sorta di teatro, dove va in scena il tema ancestrale dell’amore e della morte e dell’impossibilità di salvare la donna amata (Con la gente sul ponte).
Si approda all’ultima tappa del viaggio, al luogo del doppio e dello straniamento: un’isola che intossica la coscienza e le impedisce l’accesso all’unica, intravista, via di salvezza.
Il gioco della duplicazione coglie in flagrante il desiderio che il futuro appartenga ancora agli esseri umani, nonostante i loro sforzi, consci e inconsci, di distruggere qualsiasi prospettiva di superamento dell’apocalisse (terzo volume, La prima morte).
La trilogia Poena Damni (Il dolore per ciò che è perduto) è un’opera d’arte, indubbiamente. Ci costringe a guardare la realtà nella giusta prospettiva, sub specie aeterni.
La malattia, la morte, le psicosi violente, la catastrofe incombente, gli incubi sanguinanti, per quanto strappino via lembi e lembi di coscienza, non riescono a cancellare il sentimento dello stupore.
Poetico e impoetico non possono essere coperti da nessun velo: è questo il merito più evidente e concreto di Dimitris Lyacos.
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